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“Nella malattia l’essere umano è chiamato a dotare di senso la propria sofferenza”. È una riflessione densa e profonda del teologo Enzo Bianchi, ma anche senza scomodare i teologi o i filosofi sappiamo tutti pronunciare belle parole piene di compassione ed empatia sulla malattia, sulla vecchiaia, sulla solitudine nel dolore. Ne parliamo con intensità, trasporto, calore anche se raramente sappiamo davvero cosa sia la malattia perché ancor più raramente siamo in grado di ascoltare con attenzione il malato, raramente siamo in grado di capire cosa la sua condizione umana ci dica su di noi, sulla nostra esistenza sul “caso serio” della vita che è la sofferenza (Lev Tolstoj, da: La morte di Ivan Ilič). Il lavoro fotografico di Maria Erovereti dal titolo “Un piccolo mondo” è un’intensa testimonianza, una ricerca inesausta del senso della vita e della sua inevitabile fine. È ascolto, è tentativo di comprensione, è desiderio di verità, è focalizzazione di un ricordo, di una sensazione, è riconoscimento della condizione umana nel momento in cui l’Io non può più essere appieno Io, è amore incondizionato. Ma è anche ricerca interiore sulla fragilità umana, una fragilità mai esibita negli splendidi scatti analogici che ritraggono con soffici tinte emozioni vissute vere e vivide che sembrano quasi sgorgare dal corpo immobile e silenzioso che, attraverso la fragilità, diventa forza rivelatrice del senso del soffrire, amare, gioire, vivere sulla Terra. Maria Erovereti non vuole immortalare nei suoi scatti la sofferenza, vuole immortalare attraverso il sofferente “il lato notturno della vita, la nostra cittadinanza più onerosa perché tutti quelli che nascono hanno una doppia cittadinanza, nel regno dello star bene e in quello dello star male. Preferiremmo tutti servirci solo del passaporto buono, ma prima o poi ognuno viene costretto, almeno per un certo periodo, a riconoscersi cittadino dell’altro paese” come disse Susan Sontag nel suo saggio Malattia come metafora. Non esiste una sofferenza astratta e non deve esistere una spersonalizzazione del sofferente o una disperazione che nasce da un’assenza, ma una scuola di umanità, un cammino di sensi. Ecco, “Un piccolo mondo” è un rispettoso cammino: accidentato, contraddittorio, denso di incognite e sorprese, di regressioni, di rifiuti e accettazioni, di momenti di pace e di insofferenza, di attimi di sconforto e di resilienza, di vita non di morte. È accettazione della propria impotenza, delle proprie illusioni, del proprio limite, della propria fragilità attraverso la forza positiva dell’amore “poiché i nostri punti deboli possono diventare i nostri punti forti” (Dostoevskij, da: L’Idiota) che è senso della vita. “Chiediamo tutto all’amore. Gli chiediamo di essere anarchico. Gli chiediamo di essere il collante che tiene insieme la famiglia, che regola la società, che assicura i processi di trasmissione da una generazione all’altra, lo trattiamo come una sensazione viscerale talvolta censurata dall’arido mondo meccanizzato degli adulti, fatto di coercizioni lavorative, regole, responsabilità e impersonalità, talaltra fatto di gioco, irresponsabilità, edonismo e leggerezza.” (Susan Sontag, da Odio sentirmi una vittima, intervista su amore, dolore, scrittura con Jonathan Cott). Tutto questo è “Un piccolo mondo” di Maria Erovereti: un lavoro che palesa l’amore attraverso scatti sulla quotidianità familiare fatta di piccoli gesti spesso ripetuti innumerevoli volte; di amorevoli, tenaci e talvolta dolorose connessioni che alimentano il legame con i propri cari. Il tenue legame con la vita.
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